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al testo di Mattia Tarantino
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Mio figlio avrà nome Enoja, recherà nel ventre l’ultimo avverbio di un dolore da seme:
soffrirà la stessa sciagura bianca, della atroce maestà dell’acqua malata. Noi, umiltà e arcano, invochiamo
l’eterno scolaro, l’eterna gioia dell’esca: il cilicio mortifica il verme e trapassa la carne dell’astro.
Se il verso, la parola è nell’ordine dell’angelo, è lo strascicare della lingua sulla forma.
Prima che Enoja avvenga, sia una pioggia nera sul cuore della madre; sia l’ingenuità del passero ferino:
meraviglia dell’orefice è l’ancora vergine cerchio e la mano: v’è davvero una frottola bianca al principio del tutto? v’è davvero la bizzarria d’una luce corrusca?
La legge è la parola, la parola è la legge, la legge annienta, mastica, ed è polvere dell’uomo e della carne.
Fiore ostinato d’autunno, rendi lo stupore allo stupore; avvieni nel dominio della gioia capovolta:
vorrei una farfalla altrettanto ostinata morirmi sulla lingua, l’audacia di mio figlio orfanello;
vorrei l’oro e l’argento della prima creazione, della menzogna il cui nome è celato nel libro. Eppure so che il verso è la memoria:
prima che io bussassi ed entrasse la carne* già fummo Enoja, già fummo l’albero barbaro e il nulla alla radice del punto.
Auspico, da una carne segreta, un nuovo olocausto che sia l’assalto dell’uomo al giardino. |
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